Il Nuovo Diritto delle SocietàISSN 2039-6880
G. Giappichelli Editore

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Per una riforma del patto di famiglia (e delle norme in materia di successione necessaria) (di Antonio Palmieri, Professore ordinario di Diritto privato presso l’Università degli Studi del Molise)


Il patto di famiglia, sin dalla sua introduzione, ha destato molto interesse in dottrina e, a distanza di oltre 15 anni dall'entrata in vigore della disciplina, continua ad essere oggetto di discussione, anche a fronte di una scarsa applicazione pratica dell'istituto. In quest’ottica il contributo evidenzia le criticità delle scelte compiute dal legislatore e suggerisce le linee di riforma idonee a meglio garantire il passaggio intergenerazionale dell'impresa.

For a reform of the “family pact” (and of the rules on necessary succession)

Ever since its introduction, the “patto di famiglia” has aroused much interest in doctrine and, more than 15 years after its entry into force, it continues to be the subject of discussion, even in the face of its poor practical application. With this in mind, the contribution highlights the critical aspects of the choices made by the legislator and suggests suitable lines of reform to better guarantee the intergenerational transition of the enterprise.

1. Le ragioni dell’istituto: l’efficiente trapasso intergenerazionale del­l’impresa La l. 14 febbraio 2006, n. 55 ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano un nuovo istituto che ha ricevuto il nomen iuris di patto di famiglia e la cui disciplina normativa è stata collocata – con la tecnica della novellazione – nel tessuto del codice civile, in un autonomo capo (il V bis) del libro secondo dedicato alle successioni (artt. da 768 bis a 768 octies) [1]. Le caratteristiche essenziali del nuovo istituto possono trarsi, in primo luogo, dalla formula definitoria affidata all’art. 768 bis c.c.: “È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”; nonché dalle disposizioni contenute nell’art. 768 quater: “Al contratto debbono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore” (comma 1); “Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti…” (comma 2); “Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione” (comma 4). Le indicazioni normative appena richiamate sembrano, tuttavia, restituire all’interprete un istituto dai profili incerti, di non agevole inquadramento sistematico e, persino – come meglio si vedrà in seguito –, di dubbia utilità pratica. Legittimo chiedersi, dunque, per quali ragioni il legislatore nazionale – tradizionalmente assai cauto nell’intervenire nella materia successoria – si sia determinato ad una simile innovazione normativa. In relazione a tale interrogativo non si può non ricordare come la Commissione delle Comunità Europee, con propria Raccomandazione 7 dicembre 1994 “sulla successione nelle piccole e medie imprese” (n. 94/1069/CE) [2], avendo “…constatato che ogni anno diverse migliaia di imprese sono obbligate a cessare la loro attività a causa di difficoltà insormontabili inerenti alla successione; che tali liquidazioni hanno ripercussioni negative sul tessuto economico delle imprese nonché sui loro creditori e lavoratori; che tale perdita di posti di lavoro e di benessere economico è particolarmente deplorevole in quanto essa non è dovuta alle forze di mercato ma ad un’insufficiente [continua..]

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