Il Nuovo Diritto delle SocietàISSN 2039-6880
G. Giappichelli Editore

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Brevi note in tema di trasferimento mortis causa della partecipazione in una s.r.l. (di Giuseppe Vacchiano)


Il contributo esamina il tema del trasferimento a causa di morte della partecipazione detenuta da un soggetto in una s.r.l., analizzando in particolare il rapporto tra la clausola di consolidazione e il divieto dei patti successori. L’autore ripercorre il lungo cammino giurisprudenziale che ha portato all’attuale coesistenza tra la clausola di consolidazione e il divieto ex art. 458 c.c.

  1. L’inquadramento giuridico. Il presente studio prende spunto dalle conseguenze giuridiche del trasferimento mortis causa di una quota di minoranza di una società a responsabilità limitata ad uno o più eredi del socio deceduto. La disamina viene qui essenzialmente incentrata sulla possibilità per i soci superstiti di acquistare la quota del de cuius attraverso la c.d. clausola di “consolidazione”. Quel che occorre immediatamente precisare è che la disciplina in materia di trasferimento della partecipazione in una società a responsabilità limitata trova la sua fonte in alcune norme del codice civile, ma può, all’occorrenza, fondarsi anche su disposizioni presenti nello statuto della società. Il legislatore ha voluto disciplinare all’art. 2469 c.c. la possibilità per i soci di introdurre all’interno dello statuto eventuali disposizioni limitative alla libera trasferibilità delle partecipazioni sia per atto tra vivi, sia per successione a causa di morte. La ratio di questa disposizione è agevolmente connessa alla constatazione che la regola dell’automatica trasmissione delle partecipazioni agli eredi può assumere profili penalizzanti, sia per l’ingresso in società di soggetti “potenzialmente dannosi”, sia a causa del rischio di una possibile frammentazione della società in conseguenza del trasferimento delle partecipazioni societarie a più eredi[1]. Ciò significa che una clausola d’intrasferibilità mortis causa è tollerata dal legislatore per consentire ai soci di dare vita ad una struttura sociale “chiusa”, in cui abbia una decisiva rilevanza l’intuitus personae, cioè l’interesse all’esecuzione personale del rapporto sociale da parte del socio defunto[2].  Nondimeno, occorre obiettivamente riconoscere come la trasferibilità della quota sociale rappresenti la regola, cui lo statuto può derogare, sicché la clausola deve chiaramente indicarne la limitazione[3]. Qualora, dunque, la clausola statutaria contempli l’intrasferibilità assoluta delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento senza prevederne condizioni e limiti, o invece ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscano il trasferimento per causa di morte, il socio o i suoi eredi possono comunque esercitare il diritto di recesso. Se non si dubita circa la finalità che con tale recesso ha avuto di mira il legislatore, in altre parole quella di evitare che il blocco totale nel ricambio della compagine sociale “imprigioni” di fatto, il socio nella società[4], tuttavia non può negarsi come in caso di clausola di intrasferibilità mortis causa della quota, l’introduzione dell’istituto del “recesso” possa suscitare [continua..]

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