Il Nuovo Diritto delle SocietàISSN 2039-6880
G. Giappichelli Editore

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Grandi imprese in crisi, una storia infinita (di Stefano Micossi)


1. Il quadro d’insieme

La storia degli interventi pubblici nelle crisi dell’impresa risale all’inizio del secolo scorso e si intreccia con la storia politica ed economica del paese. Già dalla fine dell’Ottocento, le vicende delle grandi imprese italiane sono connotate da legami “a doppio filo” con le banche (miste fino alla legge bancaria del 1936). Le banche miste – in particolare le due grandi banche Comit e Credito italiano – svolsero un ruolo centrale nel fornire capitale alle grandi imprese ad alta capitalizzazione nei settori di base (siderurgia, elettricità) e nell’industria meccanica. Il modello prevalente fu quello di impronta tedesca, nel quale le banche entravano nel capitale come azionisti stabili ed erano coinvolte non solo nel finanziamento, ma anche nelle gestioni. Era comune anche il legame opposto, nel quale i grandi clienti delle banche miste ne acquistavano quote importanti del capitale. Pertanto, nelle fasi di crisi economica, il salvataggio delle imprese avvenne principalmente attraverso il salvataggio delle banche.

Le esigenze belliche poi spinsero i primi Governi dell’Italia post-unitaria a varare forti stanziamenti per la creazione di un’industria pesante e la militarizzazione di settori industriali strategici (siderurgico e metallurgico), creando un’industria ipertrofica legata strettamente alle commesse statali. Il rapporto tra Stato e imprese restò stretto anche nel primo dopoguerra quando l’industria italiana, impegnata in una faticosa riconversione industriale, continuò a chiedere protezione e sostegni finanziari. È l’inizio di un intreccio nelle relazioni pubblico-privato che ha connotato l’economia italiana e tutti i momenti critici della storia del nostro paese fino ai giorni nostri. Ripercorrendo il filo dei momenti di maggiore crisi economica e sociale, che hanno coinvolto l’Italia dall’inizio del secolo ad oggi, vale a dire gli anni Trenta, gli anni Settanta, gli anni Novanta, il primo decennio degli anni Duemila, appare evidente come i salvataggi pubblici siano una costante e come le crisi non abbiano mai dato vita a un processo rigenerativo e di crescita endogeno del sistema produttivo. La mentalità protezionistica e autarchica degli anni del fascismo mise il suggello legislativo su questo atteggiamento interventista dello Stato nell’economia che è perdurato nel tempo. Il momento di rottura è legato all’affermarsi delle politiche europee sulla concorrenza, che hanno imposto all’Italia un cambio di passo perché la politica italiana dei salvataggi speciali urta contro il divieto europeo degli aiuti di Stato. Con il sistema delle imprese pubbliche sempre sull’orlo del dissesto, l’I­talia viene messa sotto osservazione e deve adattare le leggi e le pratiche amministrative. La risposta è di trasferire le politiche di salvataggio della grande impresa, fino ad allora affidate alle imprese pubbliche e ai fondi di dotazione con cui lo Stato ne copriva le perdite, nei nuovi istituti dell’ammini­strazione straordinaria. La nuova disciplina viene varata alla fine degli anni Settanta (la legge Prodi) e fornisce lo strumento per una gestione politico-sindacale delle crisi delle grandi imprese. Deve poi essere modificata, dopo una procedura d’infrazione e due pronunce avverse della Corte di Giustizia, quando la politica europea di concorrenza inizia a mordere negli anni Novanta, conducendo nel 1998 alla legge c.d. Prodi-bis. Nel corso degli anni Duemila la disciplina dell’istituto cambia di nuovo radicalmente, all’indomani del caso Parmalat, che richiede soluzioni innovative per assicurare la continuità dell’impresa. I vecchi vizi, però continuano a ripresentarsi – nella decennale crisi dell’Alitalia come in quella dell’Ilva. Si consolida nel nostro ordinamento un doppio binario di istituti, nel quale la procedura fallimentare per le piccole-medie [continua..]

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